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IN PIAZZA CONTRO LA GUERRA. SERVE?

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di Mauro Banchini

Le città – diceva Giorgio La Pira, riferendosi anche al più piccolo e periferico fra i paesi di campagna o di montagna – non appartengono né al sindaco né ai cittadini: sono un tesoro che appartiene ai cittadini di domani. Noi siamo semplici tutori per chi verrà dopo.

Concetto affascinante che potenzia il suo significato anche in giorni come questi, quando le rovine di una nuova guerra feriscono città e paesi in terra d’Ucraina (grande vicinanza a chi, in particolare donne, è da tempo fra noi, anche qui al Poggio e dintorni, per poter lavorare).

A essere ferite, a subire danni incalcolabili, da guerre combattute con l’uso di armi che certo non si limitano a ferire e uccidere soldati, sono sempre – appunto – le città. Intese come comunità di esseri umani, non solo come palazzi. Da qui l’importanza che le città, davanti a vicende belliche come sempre intrise di ingiustizie sociali e calcoli economici, compresi i cinismi di chi fa soldi con le guerre e poi magari blatera di pace, reagiscano a schiena dritta e si mobilitino in quella che a Firenze, a fine del convegno “Mediterraneo Frontiera di pace 2”, è stata chiamata “diplomazia urbana”.

Serve a qualcosa, in presenza di guerre, scendere in piazza con le bandiere della pace? Se ci facciamo guidare dal cinismo di un certo realismo, manifestare per la pace non serve proprio. Ma per la passione di una visione “altra e alta” serve eccome.

E’ la prova che i cittadini di oggi esercitano una loro particolare “diplomazia” fatta di consapevolezza e di impegno. E’ la prova che con queste bandiere colorate pensiamo non solo a noi (ancora minacciati anche da migliaia di scudi nucleari) ma anche ai figli dei nostri nipoti, a chi ancora deve nascere e fra molti decenni, quando noi più non ci saremo, abiterà i luoghi dove adesso noi viviamo.

Vedere piazze piene nel nostro Occidente (dove la libertà di manifestare è garantita), ma vedere anche semi di rivolta laddove a protestare si rischia il carcere se non peggio, dà un senso nuovo al nostro essere, insieme, cittadini di un piccolo borgo o di una grande città e del mondo intero.

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In secondo luogo. Questa, in Ucraina, è una guerra che per la prima volta in Europa deve confrontarsi con i social media. Con la immediatezza della rete. Con le trappole del web. Con gli algoritmi. Con la pervasività ed efficacia, rapidità ed efficienza, delle fake. Ma anche con le opportunità positive che questo ambito offre a tutti noi, se abbiamo la forza di essere cittadini consapevoli e preparati: non sudditi pronti a bere la prima sciocchezza che vediamo in rete. Da qui mi è facile, in particolare per la professione che ho fatto, notare l’importanza della informazione di qualità.

Tutto, ma in particolare i luoghi di guerra, è sempre a rischio propaganda. Sempre è stato così. Sempre la propaganda militare, e politica, ha avuto un ruolo forte per orientare e spesso manipolare i popoli. Ma oggi tutto ciò ha una rapidità e una potenza mai visti in un passato anche recente. Eppure la verità dei fatti c’è. Eppure non tutti sono responsabili allo stesso modo se una guerra è scoppiata.

Per questo è essenziale che la cittadinanza sia attiva e critica, consapevole e attenta. Da qui il ruolo dei giornalisti che, talvolta a rischio della loro vita, stanno sui luoghi di guerra (spesso loro stessi vittime di informazioni non disinteressate) per tentare di fare una professione sempre complessa ma lì difficilissima: mediare fra i drammi in cui sono inviati e noi, spettatori in cerca di capire; raccontare ciò che vedono; far sentire, a noi che guardiamo i tg magari mangiando una pizza, il puzzo della morte; non nascondere nulla; avere anche il coraggio di dichiarare non sicura qualche notizia che non abbia la necessaria verifica.

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In terzo luogo la fede religiosa. Subito il nostro Papa Francesco ha sottolineato la sua “tristezza” (che non può non essere anche la nostra) davanti a “cristiani” che combattono contro altri “cristiani”. E il Vangelo letto nelle Messe di domenica 27 febbraio – compresa la Messa fiorentina in Santa Croce con vescovi cattolici e sindaci dai tre continenti affacciati sul Mediterraneo – ci ha di nuovo raccontato la parabola del cieco che si lascia guidare da un altro cieco. Finiscono entrambi in un fosso. Inevitabile.

Inevitabile, in parallelo, che la cecità di scegliere le armi per risolvere i problemi faccia precipitare tutti dentro un fosso profondo. Tutti: i ciechi che fanno questa scelta, i ciechi che la subiscono, i ciechi che non si oppongono, i ciechi che si girano dall’altra parte.

A maggior ragione per chi, in vari modi e con storie diverse alle spalle, ha avuto fiducia nel Vangelo e crede all’insegnamento di quel Signore Gesù che rinunciò a farsi difendere con le spade e, nell’ora per lui più buia, riattaccò al soldato “nemico” quell’orecchio che una spada “amica” aveva reciso.

Anche da qui l’importanza dell’invito che ci fa fatto il Santo Padre per questo primo giorno di Quaresima 2022. Preghiera e digiuno. Ho amici vagamente miscredenti che mi prendono in giro per questo tipo di risposta a loro giudizio del tutto inutile se non ridicola. Massimo rispetto, ci mancherebbe.

Ma ricorderei a me stesso la battuta di La Pira nel suo viaggio al Cremlino. Quando ai capi URSS che magnificavano la (apparente) forza dei loro cannoni ricordava la (apparente) debolezza delle monache di clausura che, pregando, erano tutte con lui. Oggi nessuno più ricorda i nomi di quei capi sovietici ma Giorgio La Pira – lo stesso che se gli davano retta la guerra in Vietnam sarebbe finita 7 anni prima – è portato come esempio di lungimiranza.

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Quarto. Se Papa Francesco non è venuto a Firenze e neppure ha citato questo convegno fiorentino su pace e giustizia nel Mediterraneo, è pur vero che ha fatto – nel suo angelus in San Pietro – una scelta precisa e a suo modo innovativa. Ha infatti citato, a motivo della contrarietà alla guerra, non solo il Vangelo ma anche la Costituzione della Repubblica italiana. Per la precisione quell’articolo 11, su cui lavorò intensamente anche Giorgio La Pira che obbliga la nostra democrazia a “ripudiare la guerra come strumento di offesa alla libertà di tutti i popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.  

La guerra è soluzione antica. Arcaica. Preistorica. Non risolve. Anzi aggrava. E bene lo sapevano i padri costituenti che, con un Paese pieno di rovine causate da una guerra inevitabile contro una dittatura crudele, scrissero che, per il futuro, quella legata alle armi non poteva essere soluzione valida. Per “assicurare pace e giustizia tra le nazioni” bisogna puntare su altro. E lo steso articolo 11 indica, fra le righe, due concretissime strade: l’integrazione europea e l’organizzazione fra le nazioni unite. Vanno percorse ancora, certo migliorate e potenziate. Ma la strada giusta porta ai “ponti”, non certo ai “muri”.

Sarebbe bello e utile se nelle nostre parrocchie, una volta finita e speriamo presto la fase più acuta di questa ultima guerra, si cominciasse sul serio a prepararci per affrontare, da credenti e da cittadini, le sfide di un oggi così complesso. Abbiamo, attualissima, una dottrina sociale troppo spesso trascurata. E la “carta” approvata a Firenze magari non sarà un capolavoro, ma può comunque essere una buona base di partenza per aiutare in questo cammino. Di consapevolezza.

Qui una sintesi e, in fondo, il testo integrale della “carta di Firenze”:

https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/carta-di-firenze-bassetti-nardella