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Un ponte per la vita. Storie di “semplici” infermieri di terapia intensiva

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di Giulia Cirri,
infermiera anestesista a Careggi (Fi)

Nessuno ti ha avvisato prima, nessuno ti ha preparato né dato spiegazioni. Anzi quasi si aspettano che penserai tu a tutto, tanto da sempre sei il jolly, il vero trasformista dell’ospedale, all’occorrenza psicologo, addetto alle pulizie, estetista, idraulico, meccanico, ingegnere gestionale o informatico oltre che quello che dovresti essere: un semplice infermiere di terapia intensiva.

Cominci a vedere il mondo intorno a te, da sempre così familiare, cambiare ad un ritmo frenetico. Si trasferiscono pazienti e si liberano tutti i letti, si svuotano e poi riempiono nuovamente armadi ma soprattutto si costruiscono muri. Un muro nuovo ogni giorno, ad ogni nuovo turno si è aggiunta una parete ad un’altra e in un attimo vedi davanti ai tuoi occhi cosa si sta costituendo, una sorta di bolla separata da tutto e da tutti nella quale ti trovi proiettato praticamente all’improvviso da un giorno all’altro.

Le istruzioni sono poche, dovrai inventarle tu via via che vivi le tue giornate di lavoro. I malati che incontrerai non li conosci nemmeno per tipologia perché la loro condizione ti è sconosciuta, è una novità per tutti. Ma imparerai. Entri nel filtro che ti separa da questa porzione di mondo che comincia sempre più a sembrare una specie di dimensione parallela. E inizi a scorrere su un foglio appeso alla porta, una lista di azioni, la prima delle quali è di una banalità sconcertante e al contempo sembra quasi fuori luogo: “prima cosa, fai la pipì”. Sorridi mentre leggi, non ti sembra possibile che ci sia bisogno di specificare in una istruzione di lavoro una raccomandazione del genere. Lo scoprirai più avanti perché invece il bisogno c’è. Continui a leggere: metti una protezione sul naso, sulla fronte, sugli zigomi, poi i calzari, cuffia, tuta, guanti, secondi guanti, maschera, terzi guanti, seconda maschera, cappuccio, visiera….. Un passo dietro l’altro ti trovi completamente ovattato, rinchiuso in un bozzolo personale che lascia fuori soltanto gli occhi dietro una visiera.

Varchi la soglia della bolla, chiusa rigorosamente dal muro che fino a ieri non c’era e da una porta con una grossa scritta “VIETATO L’ACCESSO, COVID 19”. Vietato ovviamente non a te.

E lì trovi i tuoi pazienti. Sai già che il percorso che condividerai con loro sarà molto lungo. Sai già che molti non ce la faranno. Sai pure un’altra cosa che in modo prepotente ti colpisce quasi fin dal primo momento: che siete soli. Soli. Perché il resto del mondo è rimasto fuori.

Il lavoro in terapia intensiva non sempre comprende le interazioni interpersonali con gli assistiti. Molte di queste relazioni passano dai familiari mentre il paziente si trova in una stato di coma. Ma per questi pazienti nessun familiare può farsi da intermediario e riconsegnare al proprio caro un po’ di dimensione umana, la consapevolezza che dietro quel nome c’è una persona con un vissuto e una dimensione di unicità.

A te sanitario è richiesto di farti carico di questa riattribuzione per non rischiare di trovarti a prestare assistenza ad un numero di letto.

I giorni passano, impari a tollerare la reclusione nello scafandro ad ore crescenti, aumenta la tua tolleranza alla Co2 che normalmente ti avrebbe sottratto lucidità in capo a qualche decina di minuti. Impari a muoverti agevolmente anche nella tuta, l’udito si affina attraverso il cappuccio, migliora la sensibilità attraverso tre stati di guanti. E anche alcuni dei tuoi malati migliorano, si svegliano, iniziano a respirare da soli. Qualcuno si sveglia già lucido, qualcuno ancora non distingue se sta sognando o se è realtà. Ti accorgi però che tutti hanno un unico grande bisogno: la tua presenza. Tu sei portatore di tutto, sei il tramite con la “vita” perché a te è data facoltà di uscire da quel box isolato. In quei momenti ti chiedi veramente come riuscire a far parlare gli occhi perché sai che tutto il tuo non verbale passa solo e soltanto da lì. “Sarò capace di far passare affetto, vicinanza, empatia, supporto, incoraggiamento, solo con uno sguardo? Per quanto possa accompagnarlo con le parole? Riuscirò attraverso tre stati di guanti a far sentire il tocco di una stretta di mano di quelle che da sole vogliono dire tutto?”.

Ogni giorno il rito della telefonata a casa per dare notizie ai familiari. Il medico alza il telefono e sa che dall’altra parte c’è qualcuno  che vive tutta la sua giornata in funzione di quella telefonata, che se tarda anche solo di qualche minuto vive di angoscia e impotenza.

Arrivano le belle notizie. Arriva anche un tablet ospedaliero con cui fare videochiamate, un ponte, una finestra verso la vita. Arrivano anche le notizie brutte. Di chi non ce l’ha fatta. Di chi frettolosamente viene chiuso in un sacco senza essere visto da nessuno e arriva il dolore di chi a casa non ha la possibilità di realizzare la realtà della perdita e continua a chiamare in reparto anche nei giorni successivi per chiederti delle ultime ore, degli ultimi giorni. Perché son stati privati di qualcosa di fondamentale, sono stati privati della possibilità di congedarsi. Viene richiesto a te di portare i messaggi prima di peggiorare in modo irreversibile “se non dovessi farcela dite a mia moglie…. baciate i miei nipoti…. salutate mio fratello….”. Come è richiesto a te di restituire gli ultimi attimi di chi ci ha lasciato a chi ha aspettato il ritorno invano a casa.

Insieme a tutto questo, insieme alla fatica fisica, insieme alle difficoltà quotidiane arrivano le lacrime. Alcune silenziosamente, altre prepotentemente. Ti guardi e vedi che non sei solo a piangere e riscopri una vicinanza tra le persone di cui eri stato derubato dai ritmi frenetici fuori da quella bolla.

Una vicinanza che non ha bisogno di parole e nella quale riesci a scorgere il seme di quella umanità capace di risollevarsi sempre e comunque, forse perché sempre e comunque sente in sé l’alito di vita di un Dio che, se abbiamo saputo cercarlo e renderne testimonianza, non ci ha mai lasciati soli.