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Primo Maggio: il lavoro dopo il Corona. Paure e prospettive

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di Mauro Banchini

Primo maggio, San Giuseppe Artigiano, festa del lavoro. Sta scritto così sui calendari per un giorno che invita alla festa e che quest’anno assume un significato diverso.

Vengono da sempre unite, nella stessa festa, due dimensioni diverse. Quella “verticale”, che rimanda alla famiglia di Gesù in una ordinarietà certo basata anche sul lavoro: per vivere, per realizzarsi, per far avanzare la comunità. Poi c’è la dimensione “orizzontale”: un lavoro e una retribuzione giusta, specie nella Repubblica “fondata sul lavoro”; la lotta per mantenerlo; per non vederlo entrare in conflitto con la salute; per non vederlo smarrire, come purtroppo oggi normale, in una infinità di forme spezzettate (chi non ha visto l’ultimo film di Ken Loach – sulle crudeltà della gig-economy – si affretti a vederlo).

Una festa, il primo maggio, che segue l’altra grande festa civile (il 25 aprile) in un periodo caratterizzato, nel calendario religioso, dal trittico Pasqua, Ascensione, Pentecoste. Una festa ancora più necessaria, nella eccezionalità di ciò che il mondo sta vivendo.

Ci eravamo illusi di vivere sani in un mondo malato”, è la frase di Francesco che non riesco a scordare. Da come saremo in grado di interpretarla, dipenderà la qualità della ripresa. Perché una ripresa, di sicuro, ci sarà. E se il pessimismo della ragione ci porta a convenire che ne usciremo tutti più incattiviti, impoveriti, impauriti, sconfortati è però l’ottimismo della volontà che deve, anche sul lavoro, sostenerci.

Già prima della pandemia si era consapevoli che una percentuale elevata dei lavori futuri ancora non è stata inventata: oggi, quando abbiamo “scoperto” che al lavoro si può andare anche in altro modo, ciò può rappresentare – nel bene, non solo nel male – una sfida da cogliere in positivo.

Possiamo uscirne, da Covid19, come se nulla fosse accaduto: ricominciando come prima, consumando più di prima, illudendoci di essere “sani”, facendo le semplici comparse in un modo così ingiusto che pochissimi detengono ricchezze immense. Oppure, anche grazie alla grande paura, possiamo imboccare strade “altre”: per esempio quelle su cui Francesco, non certo a caso in Assisi, aveva convocato economisti e imprenditori, intellettuali e politici, credenti o meno, divisi su molto ma uniti dalla voglia di una economia “altra”. Quella che è stata definita “l’economia di Francesco”. In primis tocca, certo, a chi governa: ma nessuno di noi può sentirsi escluso dalla ricerca di un mondo “altro”.

Su come il bambino Gesù, diventato adolescente e poi uomo, abbia affrontato, in famiglia, la ordinaria dimensione lavorativa non sappiamo nulla. Né mai lo sapremo. La figura di San Giuseppe lavoratore resta una incognita. Possiamo solo fantasticare sulla sua bravura di artigiano, sulla eccellenza dei suoi prodotti, sulla onestà con cui quale manteneva la famiglia e contribuiva alla crescita di Nazareth.

Non sappiamo nulla neppure del nostro futuro. O, meglio, del futuro di chi oggi si affaccia alla maturità: purtroppo non è detto sarà migliore rispetto a chi, oggi nonno, ha avuto la fortuna di essere stato ragazzo negli anni, contraddittori ma entusiasmanti, del “boom economico”.

Ma una cosa dobbiamo saperla: la democrazia, compreso anche quel “diritto al lavoro” sancito in Costituzione, articolo 4, non ce la regala nessuno, è conquista lenta, da mantenere, non è mai “data” per sempre. Tutti siamo obbligati a essere cittadini, a metterci impegno e intelligenza, sacrificio e lotta.

Nel mitico “inno dei lavoratori” (scritto da Filippo Turati nel 1886: quello che inizia “Su fratelli su compagne, su venite in fitta schiera”) che oggi nessuno più conosce né tantomeno canta, neppure in una sinistra ormai sconfitta, stanno concetti che, al di là della retorica, conservano una loro attualità. Per il post Covid19.

Ad esempio la solidarietà (“Nelle pene e nell’insulto/ ci stringemmo in mutuo patto/ la gran causa del riscatto/ niun di noi vorrà tradir”). Ad esempio la lotta (“Ogni cosa è sudor nostro/ noi disfar, rifar possiamo/ la consegna sia: sorgiamo/ troppo lungo fu il dolor). Ad esempio sulla globalizzazione buona (“I confini scellerati/ cancelliam dagli emisferi/ i nemici, gli stranieri/ non son lungi ma son qui”).